Le pagine che seguono sono state pubblicate, con alcune modifiche, in Cuori intelligenti. Mille anni di letteratura, edizione blu, antologia scolastica per il triennio delle scuole superiori, a cura di Claudio Giunta, Milano, Garzanti scuola, 2016.
Giosuè Carducci è stato per decenni uno dei poeti più studiati a scuola, perché l’Italia unita si riconosceva nei suoi versi. Agli alunni si insegnava ad amare l’Italia e la sua storia, e le poesie e le prose di Carducci erano il mezzo ideale per raggiungere questo scopo. Ad esempio, nell’ode Cadore, Carducci ricorda l’estrema difesa tentata, nel 1848, dalla Repubblica Veneta, guidata da Pietro Calvi, contro gli Austriaci, che avevano offerto la resa (il «patto d’Udine»):
Oh due di maggio, quando, saltato su ’l limite de la
Strada al confine austriaco,
Il capitano Calvi – fischiavan le palle d’intorno –
Biondo, diritto, immobile, 52
Leva in punta a la spada, pur fiso al nemico mirando,
Il foglio e ’l patto d’Udine,
E un fazzoletto rosso, segnale di guerra e sterminio,
Con la sinistra sventola! 56
Il Fascismo si impadronì di Carducci e lo utilizzò come strumento di propaganda, dandone un’immagine parziale e, per molti versi, falsa: l’immagine di un poeta che è la voce della nazione e che della nazione (anche della nazione fascista, che Carducci ovviamente non vide) canta i destini gloriosi. Nel settembre del 1932, in occasione dei venticinque anni dalla morte di Carducci, Mussolini lesse un discorso commemorativo davanti alla Chiesa di Polenta, chiesa su cui Carducci aveva scritto una celebre ode saffica. Secondo Mussolini, Carducci «era un Italiano integrale o, come diciamo noi, totalitario» e aveva sentito Roma «come pochi poeti sentirono»: «aveva anzi negli occhi la nostra Roma, quella che stiamo ricostruendo non soltanto nelle pietre ma negli spiriti». L’incolpevole Carducci ha poi pagato questo eccesso di ‘esposizione’ con decenni di oblio. Era guardato con fastidio: un soprammobile vecchio e polveroso che ci è arrivato in eredità e di cui non ci possiamo liberare, ma che possiamo almeno cercare di nascondere. Oggi possiamo darne un giudizio più equilibrato, e tornare a vederlo per quello che è stato: una figura centrale non solo nella letteratura ma nella vita culturale italiana del secondo Ottocento.
Carducci nasce nel 1835 a Valdicastello, in Versilia. Viene battezzato con il nome di Giosuè, con l’accento, e per quasi tutta la vita lo scrive così; poi, a partire dagli anni Novanta, inizia a firmarsi Giosue, senza accento (ma la pronuncia rimane invariata). Nel 1839 il padre, che di professione fa il medico, trasferisce la famiglia nella Maremma pisana, a Bòlgheri: vi resta dieci anni, «sciupando negli stenti, negli strapazzi, nell’oscurità, e anche nelle soverchie bibite, alle quali chiedeva l’oblio e la forza per le lunghe fatiche, l’ingegno coltissimo che aveva, la cultura non comune, la scienza e l’attitudine specialmente per la chirurgia».
La Toscana era governata dal Granduca Leopoldo II della dinastia Asburgo-Lorena. Il padre di Carducci aveva idee democratiche e repubblicane: quando era studente, si era arruolato come volontario per partecipare ai moti del 1831. Nonostante allora fosse stato arrestato e mandato al confino, non aveva imparato la prudenza e continuava a dichiarare a gran voce le sue posizioni politiche, specie durante le rivoluzioni del 1848-49, che avevano costretto Leopoldo II alla fuga. I concittadini maremmani, per la massima parte fedeli al Granduca, detestano il padre di Carducci. Arrivano a sparare un paio di fucilate contro la sua casa, di notte. Dopo questa intimidazione, la famiglia si trasferisce a Firenze.
Fino ad allora era stato il padre a fare scuola al figlio, insegnandogli bene il latino e la storia, facendogli leggere Manzoni, Tasso, Dante; la madre aveva aggiunto le tragedie di Alfieri e i versi patriottici di Giovanni Berchet. A Firenze, Giosuè frequenta la scuola dei padri Scolopi. Grazie all’interessamento di uno di loro, entra alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si laurea nel 1856.
L’anno successivo va a insegnare a San Miniato, vicino a Pisa: in questo periodo, rievocato nella prosa Le “risorse” di San Miniato al Tedesco, pubblica il suo primo libro di Rime. Nel 1858 prova a vivere a Firenze, lavorando per l’editore Barbèra. Nel marzo del 1859 sposa Elvira, una sua parente; poi torna all’insegnamento, questa volta a Pistoia. Nel 1860 la grande svolta. Il ministro Terenzio Mamiani (quello che Leopardi cita in modo irridente nella Ginestra) deve nominare il professore di letteratura all’università di Bologna. La scelta cade sul poeta più famoso di quei decenni, Giovanni Prati, che però rifiuta. Allora Mamiani chiede al giovanissimo Carducci, che naturalmente accetta. Bologna diventerà la città della sua vita.
Gli anni Sessanta sono un periodo di grande crescita culturale: legge storici francesi di impostazione democratica; impara il tedesco e studia a fondo vari lirici tedeschi, tra cui Heinrich Heine; impronta la sua poesia all’esempio di alcuni scrittori francesi politicamente impegnati (Victor Hugo, Auguste Barbier, André Chenier); nel 1866 diventa membro della massoneria. Le sue idee democratiche, anticlericali e progressiste si rafforzano. Contemporaneamente esercita il proprio mestiere di professore con rigore e passione. I suoi interessi professionali svariano lungo tutto l’arco delle lettere italiane, con particolare attenzione per la lirica del Due-Trecento (Dante e Petrarca); Ariosto, Tasso e la cultura estense del Cinquecento; Metastasio, Parini e i minori del Settecento. La sua opera di studioso è di primissimo piano, così come quella di docente: ha formato generazioni di altri studiosi, docenti universitari (Pascoli è il più celebre) e insegnanti di scuole superiori.
Alla fine del decennio (1868) pubblica la raccolta Levia Gravia. Contemporaneamente inizia a scrivere le poesie politiche che confluiranno in Giambi ed Epodi. Infatti, oltre che professore e poeta, Carducci è quello che oggi si chiamerebbe un militante politico. Frequenta le associazioni democratiche e repubblicane dell’Emilia Romagna. Ma queste sue scelte gli costano care: nel febbraio 1868, per aver commemorato la Repubblica romana del 1849, viene sospeso per due mesi dall’insegnamento e dallo stipendio. Risalta, in questo modo, un aspetto importante del classicismo carducciano: l’amore per la tradizione greca, latina e italiana, va di pari passo a un coinvolgimento nell’attualità e a scelte politiche progressiste. Studiare i classici non vuol dire allontanarsi da un presente che non si vuole conoscere: dallo studio dell’antico Carducci trae princìpi ed esempi che adopera per interpretare il mondo in cui vive. Il suo interesse per la tradizione classica è, insomma, tutt’altro che consolatorio e contemplativo.
Gli anni Settanta registrano una grande novità nella poesia carducciana. Nasce la cosiddetta ‘lirica barbara’: le Odi barbare sono del 1877. Carducci continuerà a praticare la poesia barbara nei decenni successivi: le Nuove odi barbare sono del 1882, le Terze odi barbare del 1889.
L’altra novità degli anni Settanta è di carattere personale: nell’aprile del 1872 Carducci si innamora di Carolina Cristofori coniugata Piva, che diventa Lidia o Lina nei versi. Fu un amore intenso (nacque un figlio Gino, riconosciuto da Domenico Piva), destinato ad affievolirsi dopo sei anni e a terminare con la morte della donna nel 1881. In quegli anni, la fama di Carducci si accresce all’estero. Due grandi studiosi del mondo greco-latino come Theodor Mommsen e suo genero Ulrich von Wilamowitz pubblicano nel 1878, in Germania, una traduzione di alcune Barbare.
L’invenzione della metrica barbara non arresta la produzione di versi ‘tradizionali’, che sono riuniti nelle Rime nuove del 1887. Ciò significa che Carducci lavora contemporaneamente a testi di natura differente: poesia lirica e poesia giambica; metrica tradizionale e metrica barbara. Bisogna quindi stare attenti quando si considera la data di pubblicazione delle raccolte poetiche carducciane, perché essa non dà informazioni esatte sulla data di composizione dei testi: ad esempio, le Barbare del 1877 contengono testi in parte contemporanei e in parte posteriori a quelli delle Rime nuove del 1887.
Nel 1890 Carducci viene nominato senatore del Regno. L’ultima raccolta di poesie, Rime e ritmi, compare nel 1899.
Uno dei tratti più interessanti della vicenda intellettuale di Carducci è la sua parabola politica. In essa molti hanno visto un chiaro esempio di trasformismo: Carducci si sarebbe evoluto da posizione democratiche e repubblicane negli anni Sessanta e Settanta a posizioni moderate e monarchiche, sempre più conservatrici negli Novanta. Come si dice (e come avviene spesso ancor oggi): da incendiario a pompiere.
Per il punto di partenza ideologico è utile riportare quanto dichiarava lo stesso poeta in apertura dei Giambi ed Epodi, nel 1882:
Io dunque era dei moltissimi che nel ’59 e nel ’60 accolsero la formola garibaldina Italia e Vittorio Emanuele, senza verun [alcun] entusiasmo per la parte moderata e i suoi condottieri [leader politici], ma lealmente; un po’ per riconoscente affetto al re e al Piemonte, nella cui fermezza aveva trovato qualche consolazione la miseria del decennio, un po’ per il concetto che nella fusione […] delle memorie monarchiche d’una parte con le democratiche di altre parti del paese […] la storia d’Italia, questa istoria mirabilmente complessa […] troverebbe [avrebbe trovato] alfine […] il suo esplicamento e complemento necessario, la liberazione, la unione e la grandezza di tutta la patria per virtù e forza della nazione, senza e contro ogni ingerenza straniera un esempio nobilissimo, e utile eccitamento alle altre genti oppresse dal comune inimico.
E che tali concetti non fossero fuori o sopra il possibile, dimostrarono i miracoli del ’60 [la spedizione dei Mille e i plebisciti]; come di certo non potevano ravvicinare e conciliare noi alla parte moderata gl’indegni procedimenti [azioni] dopo l’acquisto delle Due Sicilie usati con l’esercito meridionale e il suo gran capitano, la politica violenta insieme e corruttrice, tirannica insieme ed anarchica, incerta, debole, inetta, che sgovernò [governò male] le province del mezzogiorno, la miserabile soggezione a tutti gli imperi di Francia, l’agguato di Aspromonte […].
Con l’andare del tempo è indubbio che Carducci guardi alla monarchia dei Savoia con realismo politico. È l’istituzione che, bene o male, ha unificato l’Italia e conquistato Roma, e che, bene o male, sta facendo progredire il paese attraverso istituzioni democratiche. Il sogno di una ‘terza Italia’, di una nuova grandezza dopo quella di Roma antica e dei comuni medievali, si può dunque realizzare attraverso casa Savoia. Per Carducci la repubblica rimane un sogno, un’aspirazione, ma non è più un programma all’ordine del giorno. E se pensiamo che in Italia la Repubblica si afferma, e pure con il sospetto di brogli, il 2 giugno del 1946 dopo vent’anni di dittatura, una guerra mondiale persa, una guerra intestina durata 18 mesi, non possiamo che rilevare come Carducci avesse visto giusto: erano altre le battaglie politiche da combattere.
Nel 1906 Carducci riceve il premio Nobel. L’onorificenza era stata istituita da cinque anni e Carducci è il primo italiano, insieme al medico Camillo Golgi, a vincerla. Carducci era ormai in condizioni di salute talmente precarie che non poté andare a ritirarlo: fu l’ambasciatore di Svezia a consegnarglielo a domicilio.
Nel febbraio del 1907 Carducci muore. Il suo funerale è seguito con enorme attenzione dalla stampa. È un funerale laico, in cui la salma veste i simboli massonici (la sciarpa verde, bordata di rosso, grado 33° del Rito Scozzese Antico ed Accettato). Le spoglie sono richieste da Firenze, che le vuole seppellire in Santa Croce, la chiesa in cui riposano «l’urne de’ forti» celebrate da Carducci sulle orme di Foscolo. Bologna, però, non cede e ora si trovano alla Certosa: un imponente monumento funebre, realizzato in marmo di Carrara da Leonardo Bistolfi, si eleva accanto all’ultima casa abitata dal poeta e dai suoi discendenti. Questa casa, aperta al pubblico, è diventata una biblioteca che conserva le carte e i libri di Carducci.
La poetica di Carducci e il suo posto nella storia della letteratura
Nei primi anni Settanta dell’Ottocento Carducci, nemmeno quarantenne, è già un poeta di primo piano. Alla fine del decennio, dopo la pubblicazione delle Odi barbare (1877), è il poeta più importante d’Italia. Il suo dominio è incontrastato fino a fine secolo, quando prima d’Annunzio e poi Pascoli lo affiancano. Ma, nell’Italia che si affaccia al Novecento, è Carducci il poeta nazionale: gli altri sono i giovani che, facendosi largo, suscitano consensi e dissensi fra i lettori; lui non è quasi mai in discussione.
Carducci è lo scrittore in cui l’Italia unita si riconosce anche perché assume su di sé vari ruoli. Dal 1860 insegna letteratura all’università di Bologna, ed è un professore amato e rispettato. Accanto all’insegnamento, porta avanti sino alla fine della sua vita un’attività di studioso eccezionalmente prolifica. Studia e scrive di quasi tutte le epoche della letteratura italiana, ma è attratto particolarmente dal Medioevo e dalla prima età moderna (Dante, Petrarca, Poliziano, i minori del Trecento sono i suoi autori favoriti). Vede con chiarezza che la formazione di una cultura nazionale unitaria deve passare attraverso lo studio non solo della tradizione italiana ma anche delle micro-tradizioni in cui si è specificata la storia del nostro paese: «c’è la critica storica da portare intorno ai nostri classici», scrive, «c’è la storia di tutta la nostra letteratura antica e moderna da fare, c’è da fare la storia del nostro popolo […]. E badate; che per fare compiuta e vera la nostra storia nazionale ci bisogna rifar prima o finir di rifare le storie particolari, raccogliere o finir di raccogliere tutti i monumenti dei nostri comuni ognun dei quali fu uno stato; e per far utile e vera la storia della nazional letteratura ci conviene prima rifare criticamente le storie dei secoli e dei generi letterari, che tutti hanno un loro portato e diversi gradi di svolgimento, le storie delle letterature provinciali e di dialetto».
A partire dagli anni Sessanta, Carducci è anche un intellettuale che interviene nella sfera pubblica, sia attraverso le sue poesie (i Giambi ed Epodi, innanzitutto) sia attraverso l’impegno in prima persona: è un militante politico, è a lungo membro del Consiglio comunale di Bologna, scrive sui quotidiani. Nei decenni successivi riceve vari incarichi ministeriali: ispeziona le scuole, diventa membro del Consiglio Superiore dell’Istruzione Pubblica, entra a far parte della commissione che deve riformare i libri di testo. Inoltre, la regina Margherita è una sua dichiarata ammiratrice. Dopo essersi avvicinato politicamente a casa Savoia (e dopo aver abbandonato il radicalismo repubblicano per un atteggiamento più moderato e conciliante), nel 1890 viene nominato senatore del Regno.
Ma tutto ciò, probabilmente, non sarebbe bastato a far diventare Carducci il poeta nazionale per parecchi decenni. Se questo è accaduto, lo si deve ad alcune peculiarità della sua poesia. Carducci è, per formazione culturale e per indole, un classicista. Conosce gli autori greci e latini, ma soprattutto riassume in sé la plurisecolare storia della letteratura italiana sia che si guardi alla metrica sia che si guardi al linguaggio. Con le Odi barbare riesce nell’intento di fare poesia d’avanguardia recuperando tecniche che appartenevano alla poesia greco-latina. Attenzione, però: il tentativo di Carducci è sì quello di assimilare un’intera tradizione, ma il suo non è un intento puramente archeologico: vuole parlare di sé e della realtà contemporanea ai suoi contemporanei.
C’è poi un altro aspetto importante. Una parte considerevole delle poesie carducciane celebra la storia d’Italia: la grandezza di Roma, l’Italia dei Comuni, la lotta risorgimentale per l’unità della nazione. In una nota alla Canzone di Legnano scrive: «Di questo breve poema, che presi a scrivere tre anni fa per amore del vero storico e della epopea medievale, pubblico ora una parte, almeno come protesta contro certe teoriche, le quali in nome della verità e della libertà vorrebbero condannare la poesia ai lavori forzati della descrizione a vita del reale odierno e chiuderle i territori della storia, della leggenda, del mito».
Ci sono molte ‘novità moderne’ che Carducci non ama: il romanticismo, il realismo (che in quegli anni veniva propugnato sia dagli scrittori come Verga e Capuana sia dai critici come De Sanctis), il romanzo. Questa resistenza nei confronti delle nuove tendenze artistiche, questa fedeltà al passato ce lo fa sentire, oggi, molto distante. Ma il suo umanesimo classicheggiante, la sua devozione nei confronti della tradizione italiana ed europea è anche la ragione per cui Carducci, per quasi mezzo secolo, è stato uno dei pilastri del canone scolastico italiano.